Da vari giorni, avvicinandoci alla grande festa del Natale, mi sono chiesto con insistenza in cosa consiste davvero questa festa. Mi sono spesso domandato: cosa il Signore ci dona? Perché viene? Cosa da noi si aspetta? Cosa ci chiede? Come fare per incontrarlo? Come fare per “capire” la vera identità di quel Bambino? Ho spesso pensato che il nemico della vita umana e cristiana è la superficialità, l’estroflessione, l’essere del tutto presi da ciò che è esterno a noi e ci impedisce di riflettere di ascoltare, di meditare (cfr. Lc 2,19.51), di lasciarci illuminare dalla Sapienza di Dio, dallo Spirito Santo. Per tanti motivi stasera ho deciso di cominciare a sottoporre alla vostra riflessione un discorso molto impegnativo di san Paolo VI. Sì tratta di una riflessione molto intensa e profonda su un tema tanto arduo quanto decisivo. Con grande sincerità consiglio, a chi non ha un vero interesse a trattare temi decisivi e profondi, di tralasciare oggi il pensiero serale, in quanto ciò che ora vi do richiede da parte nostra una grande attenzione e un autentico desiderio di cercare e di approfondire i temi più grandi riguardanti la vita e l’esperienza dell’uomo.
Penso che un grande dono del Natale sia la luce. Ma come far capire cos’è la luce e l’importanza che la luce ha per noi? Sono sicuro che la luce si collega col grande tema della verità e che la verità è alla base di due cardini del nostro pensiero e della nostra vita, cioè la libertà e la coscienza. Per tutti questi motivi ho deciso di spedirvi la prima parte di un discorso di san Paolo VI sul tema della coscienza. Domani conto di spedirvi la seconda parte.
«Diletti Figli e Figlie!
Una delle questioni capitali circa l’attività dell’uomo moderno è quella della coscienza. Non è che questa questione sia sorta adesso, nel nostro tempo; essa è antica quanto l’uomo, perché l’uomo si è sempre posto la domanda circa se stesso. È celebre, a questo proposito, il dialogo che uno scrittore greco dell’antichità (SENOFONTE, Detti mem. 4, 2, 24) attribuisce a Socrate, il quale chiede al discepolo Eutidemo: «Dimmi, Eutidemo, sei mai stato a Delfi? Sì, due volte. Hai notato l’iscrizione incisa sul tempio: conosci te stesso? Sì. Hai tu trascurato questo avviso, o vi hai fatto attenzione? Veramente no: è questa una conoscenza ch’io credevo di avere». Di qui la storia del grande problema circa la conoscenza che l’uomo ha di se stesso; egli crede di averla e poi non ne è sicuro; problema che tormenterà sempre e feconderà il pensiero umano. Ricordiamo fra tutti S. Agostino con la sua famosa preghiera, sintesi della sua anima di pensatore cristiano: «Noverim Te, noverim me»: ch’io conosca Te (o Signore), e ch’io conosca me (cfr. Confessioni 1, X); per venire al tempo nostro trovando sempre incompleta la scienza che l’uomo ha di se stesso. Chi non ha sentito parlare del libro del Carrel: «L’uomo, questo sconosciuto» (1934)? E oggi non si dichiara che «vi è una rivoluzione nella conoscenza dell’uomo»? (ORAISON).
Ciò che a noi interessa in questo breve e familiare colloquio è notare come l’uomo moderno (e ci avvertiamo tutti compresi in questa etichetta) sia, da un lato, sempre più estroflesso, cioè impegnato fuori. di sé; l’attivismo dei nostri giorni e la prevalenza della conoscenza sensibile e delle comunicazioni sociali sullo studio speculativo e sull’attività interiore ci rende tributari del mondo esteriore e diminuisce assai la riflessione personale e la conoscenza delle questioni inerenti alla nostra vita soggettiva, siamo distratti (cfr. PASCAL, 11, 144), vuoti di noi stessi e pieni d’immagini e di pensieri che, per sé, non ci riguardano intimamente (cfr. S. AGOSTINO, De Trinitate, X, 5; P.L. 42, 977). Da un altro lato invece, quasi per istintiva reazione, ritorniamo dentro di noi, pensiamo ai nostri atti e ai fatti della nostra esperienza, riflettiamo su tutto, cerchiamo di darci una coscienza sul mondo e su noi stessi. La coscienza riprende, in qualche modo, il sopravvento, almeno estimativo, nella nostra attività.
LA GUIDA DELLA CONDOTTA UMANA
E il regno della coscienza si distende davanti alla nostra considerazione amplissimo e complicatissimo. Semplifichiamo questo immenso panorama in due campi distinti: vi è una coscienza psicologica, cioè quella che riflette sulla nostra personale attività, qualunque sia; è una specie di veglia su noi stessi; è un guardare allo specchio la propria fenomenologia spirituale, la propria personalità; è conoscersi, e diventare così, in certo modo, padroni di se stessi. Ma ora non parliamo di questo campo della coscienza; parliamo del secondo, quello della coscienza morale e individuale, cioè dell’intuizione che ciascuno ha della bontà o della malizia delle proprie azioni.
Questo campo, della coscienza morale, è interessantissimo, anche per coloro che non lo pongono, come noi credenti, in relazione col mondo divino; anzi esso costituisce l’uomo nella sua espressione più alta e più nobile, definisce la sua statura vera, lo mette nell’uso normale della sua libertà. Agire secondo coscienza diventa la norma più impegnativa e al tempo stesso più autonoma dell’azione umana.
La coscienza, all’atto pratico, è il giudizio circa la rettitudine, cioè la moralità, delle nostre azioni, sia considerate nel loro abituale svolgimento, sia nei loro singoli atti.
Ora Noi non avremmo che da fare l’apologia della coscienza; basterebbe ricordare ciò che ne ha insegnato la Chiesa in questi ultimi tempi, per esempio Papa Leone XIII nella sua Enciclica intitolata alla libertà (cfr. Denz.-Schoen. 3245 e ss.) e il Concilio recente (Gaudium et Spes, 16; Dignitais humanae. 3, 11) e basterebbe ancora ricordare quanto i maestri di spirito raccomandano alle persone desiderose del loro perfezionamento l’esercizio dell’esame di coscienza: ciascuno certamente dei nostri ascoltatori lo sa; e Noi non faremo che incoraggiarli alla fedeltà a questo esercizio, che risponde non soltanto alla disciplina dell’ascesi cristiana, ma altresì all’indole dell’educazione personale moderna» (SAN PAOLO VI, Udienza generale 12 febbraio 1969).
Domani spedirò la seconda parte e magari cercherò di rispondere a eventuali vostre domande.
Vi ringrazio con tutto il cuore per gli auguri che mi avete spedito e prego costantemente per ciascuno di voi, per le vostre famiglie, per le vostre intenzioni. Raccomando al Signore soprattutto chi soffre, chi ha più bisogno di luce, di pace, di salute, di consolazione.
MARCELLO DE MAIO