Stasera torno ancora sulle letture di domenica scorsa, in particolare sulla Seconda Lettura (1 Ts 4,13-18). Ho pensato di presentarvi il commento che ne fa padre Cantalamessa. Egli ci aiuta a trattare in modo sapiente uno dei temi più ardui in assoluto, quello della morte. Negli Esercizi spirituali, che il Signore mi ha donato in questi giorni, ho meditato sempre su un unico personaggio della storia della salvezza, Abramo, e l’episodio che più mi ha coinvolto (per vari motivi), è in un certo senso l’esperienza di morte (Gen 22): la morte che egli stesso doveva infliggere addirittura a suo figlio. Ebbene, il Signore mi ha quasi condotto per mano a meditare proprio questo brano del Padre Cappuccino, in particolare una frase dal valore immenso con la quale ognuno deve misurarsi in modo serio, umile, responsabile, deciso, profondo: «Dobbiamo fare in modo che l’attaccamento a Cristo sia più forte di quello alle cose, all’ufficio, alle persone care, a tutto».
Mi è sembrata geniale la differenza tra il teschio e il crocifisso.
C’è un cenno brevissimo anche alla solitudine, di cui vi parlavo sabato scorso.
Particolarmente attuale è poi il riferimento all’eutanasia, argomento che ha bisogno di varie altre precisazioni, che spero di fare in futuro.
Infine, vi segnalo il cenno all’àncora. Infatti, la Madonna della speranza, tanto venerata a Battipaglia, è raffigurata con un’àncora!
«Siamo alle ultime battute dell’anno liturgico e la Chiesa ci invita a volgere lo sguardo in avanti, alle realtà ultime. Paolo, nella seconda lettura, spiega ai Tessalonicesi quale deve essere l’atteggiamento del cristiano di fronte alla morte, e Gesù, nel Vangelo, dice come si deve vivere nella sua attesa:
“Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”.
È vero che lo sfondo della parabola delle dieci vergini non è la morte, ma il ritorno del Signore. Le due cose tuttavia coincidono, in pratica, per il singolo credente. Riflettiamo dunque sul tema della morte che in questo mese di novembre è un po’ nei pensieri di tutti. A dei cristiani angustiati per la morte di alcuni cari, l’Apostolo scrive:
“Fratelli, non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole”.
Cosa ha dire dunque la fede cristiana circa la morte? Una cosa semplice e grandiosa: che la morte c’è, che è il più grande dei nostri problemi…, ma che Cristo ha vinto la morte! La morte umana non è più la stessa di prima, un fatto decisivo è intervenuto. Essa ha perso il suo pungiglione, come un serpente il cui veleno ormai è capace solo di addormentare la vittima per qualche ora, ma non di ucciderla.
“La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,55).
Ma come ha vinto Gesù la morte? Non evitandola, ricacciandola indietro come un nemico da sbaragliare. L’ha vinta subendola, assaporandone in sé tutta l’amarezza. L’ha vinta dall’interno, non dall’esterno. Cristo, nella sua vita terrena “offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte” (Eb 5,7). Non abbiamo davvero un sommo sacerdote che non sappia compatire la nostra paura della morte. Egli sa bene cos’è la morte! Tre volte nei Vangeli si legge che Gesù pianse e, di queste, due furono davanti al dolore per un morto. Nel Getsemani Gesù ha vissuto fino in fondo la nostra esperienza umana di fronte alla morte. “Cominciò a sentire paura e angoscia”, dicono i vangeli. Gesù non si è addentrato nella morte come chi sa di avere un asso nella manica -la risurrezione- che tirerà fuori al momento giusto. Il grido sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” indica che Gesù si è addentrato nella morte come noi, come chi varca una soglia al buio e non vede che cosa l’attende al di là. Solo lo sosteneva una incrollabile fiducia nel Padre che gli fece esclamare: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!” (Lc 23, 46).
Ma che è successo, varcata quella soglia oscura? Quell’uomo nascondeva dentro di sé il Verbo di Dio che non può morire. La morte ne ha avuto i denti spezzati per sempre. Non ha potuto “digerire” Cristo e ha dovuto restituirlo alla vita, come fece la balena con Giona (cfr. Mt 12,40).
La morte non è più un muro davanti al quale tutto si infrange; è un passaggio, cioè una Pasqua. È una specie di “ponte dei sospiri”, attraverso il quale si entra nella vita vera che non conosce la morte. Gesù infatti -e qui sta il grande annuncio cristiano- non è morto solo per sé, non ci ha lasciato solo un esempio di morte eroica, come Socrate. Ha fatto ben altro:
“Uno è morto per tutti” (2 Cor 5,14)
“Egli ha provato la morte a vantaggio di tutti” (Eb 2,9).
Poiché noi apparteniamo ormai a Cristo ben più che a noi stessi (cfr. 1 Cor 6,19s.), ne consegue che, inversamente, ciò che è di Cristo ci appartiene ben più di ciò che è nostro. La sua morte è più nostra che la nostra stessa morte. “Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro, perché voi siete di Cristo”, dice ancora san Paolo (cfr. 1 Cor 3, 22 s.). La morte è nostra, più di quanto noi siamo della morte; ci appartiene, più di quanto noi apparteniamo ad essa. In Cristo, abbiamo vinto anche noi la morte.
Quando si tratta della morte, la cosa più importante, nel cristianesimo, non è il fatto che dobbiamo morire, ma il fatto che Cristo è morto. Il cristianesimo non si fa strada nelle coscienze con la paura della morte; si fa strada con la morte di Cristo. Gesù è venuto a liberare gli uomini dalla paura della morte, non ad accrescerla. Il Figlio di Dio ha assunto carne e sangue come noi, “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 12, 14 s.).
Quello che forse più spaventa, della morte, è la solitudine in cui dobbiamo affrontarla. “Nessuno può morire per l’altro, ma ciascuno dovrà lottare personalmente con la morte”. Ma questo non è più del tutto vero. “Se moriamo con lui, vivremo anche con lui” (2 Tm 2,11). È possibile dunque morire in due!
Qui si scopre che cosa vi è di veramente grave nell’eutanasia, dal punto di vista cristiano. Essa toglie alla morte dell’uomo il suo legame con la morte di Cristo; la spoglia del suo carattere pasquale; la riporta indietro a ciò che era prima di Cristo. La scioglie dalla soprannaturale gravitazione intorno al suo centro. La morte è privata della sua austera maestà, diventando opera dell’uomo, decisione di una libertà finita. È letteralmente “profanata”, cioè spogliata del suo carattere sacro. La discussione intorno all’eutanasia si concentra, il più delle volte, quasi esclusivamente sul problema della sua liceità o illiceità dal punto di vista etico. Un credente non può non rimanere atterrito da quello che essa significa sul piano della rivelazione e della grazia.
L’umanità ha provato ad opporre alla morte vari “rimedi”. Ma l’unico vero rimedio è partecipare alla vittoria di Cristo sulla morte. Per premunirci contro la morte, non dobbiamo fare altro ormai che stringerci a lui. Ancorarci a Cristo, mediante la fede, come si àncora una barca al fondo marino, perché possa resistere nella mareggiata che sta per sopraggiungere.
Una volta si inculcavano molti mezzi per “apparecchiarsi” alla morte. Il principale era quello di pensare spesso ad essa, di rappresentarsela nei particolari più raccapriccianti. Ma l’importante non è tanto tenere davanti agli occhi la nostra morte, quanto la morte di Cristo, non il teschio ma il crocifisso. Il grado di unione con lui sarà il grado della nostra sicurezza dinanzi alla morte. Dobbiamo fare in modo che l’attaccamento a Cristo sia più forte di quello alle cose, all’ufficio, alle persone care, a tutto, di modo che nulla abbia il potere di trattenerci, quando giungerà “il momento di sciogliere le vele” (2 Tm 4,3).
Francesco d’Assisi, che aveva realizzato in grado perfetto questa unione con Cristo, vicino alla morte, aggiunse al suo Cantico delle creature una strofa: “Laudato sii, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullo homo vivente po’ scappare”. E quando gli annunciarono che era prossimo alla fine, esclamò: “Ben venga mia sorella Morte!”. La morte ha cambiato volto: è diventata una sorella.
Egli non è stato il solo. Dopo l’ultima guerra, fu pubblicato un libro intitolato Ultime lettere da Stalingrado. Erano lettere di soldati tedeschi prigionieri nella sacca di Stalingrado, partite con l’ultimo convoglio, prima dell’attacco finale dell’esercito russo in cui tutti perirono, e ritrovate a guerra finita. In una di esse, un giovane soldato scriveva ai genitori: “Non ho paura della morte. La mia fede mi dà questa bella sicurezza!”
Non dobbiamo però farci illusioni: queste disposizioni non si improvvisano. Bisogna vivere in modo che sorella morte non ci colga “impreparati”. L’albero, dice un proverbio, da quella parte in cui pende, cadrà. E così l’uomo. Questo è dunque il momento di richiamare alla mente l’insegnamento della parabola delle dieci vergini. Occorre tenere olio di riserva nel nostro vasetto, cioè alimentare la fede con le buone opere e la preghiera, in modo che alla venuta di Cristo possiamo anche noi, come vergini sagge, entrare con lui alle nozze» (CANTALAMESSA RANIERO, Gettate le reti. Riflessioni sui Vangeli. Anno A, Piemme, Casale Monferrato, 2002, pp. 325-329).
Marcello De Maio