Vogliamo meditare il Vangelo di questa domenica grazie a don Fabio Rosini. Come nel commento al Vangelo dell’Annunciazione, anche oggi siamo esortati a una doverosa disobbedienza (all’orgoglio e alla tristezza).
«Gli araldi annunciavano nelle piazze, invece Giovanni gridava nel deserto e molti lo udirono.
Il deserto della Bibbia è un luogo di solitudine e transitorietà. Vi si passa solo se costretti. È faticoso e ci si lamenta – come il popolo nell’esodo – ma è lì che si sperimenta la Provvidenza e si viene educati a essere popolo di Dio.
L’Avvento è il tempo per non farsi scappare il Signore che viene; ne vanno intese le condizioni, descritte da un testo di Isaia sul ritorno dall’esilio. Siamo attorno ai 538 a. C., alla fine di una fase tragica, la deportazione conseguente agli errori del popolo eletto, che aveva sciupato la sua elezione. Dopo 70 anni di correzione, il profeta annuncia il ritorno, ma si parte dal deserto. La via di casa passa per la steppa, ci si deve misurare con il vuoto. Per tornare nella propria eredità, per riprendere il posto giusto nella vita bisogna partire dalla povertà, dal nulla. Non è per caso che Giovanni battezzi nel punto più depresso della terra, – 430 metri sotto il livello del mare. Qui inizia il più antico dei Vangeli, quello di Marco. Dal deserto, dal profondo, dal nulla. Si riparte da zero.
Quanto ci serve la consapevolezza del nostro vuoto! Quante volte vediamo intorno a noi l’urgenza di riconoscere i nostri limiti, la necessità di essere ridimensionati. E chissà quante volte gli altri sperano che noi stessi ammettiamo la nostra povertà…
L’indicazione, nel greco di Marco e nell’ebraico di Isaia è: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. La via del Signore, non la nostra, i sentieri suoi, non i nostri. Strana indicazione. La via del Signore, nel mondo biblico, è la sua volontà. Ci siamo addomesticati le sue vie, abbiamo fatto un’edizione riveduta e corretta dei suoi sentieri, abbiamo manipolato le sue indicazioni. Ci sono alture e crepacci fra noi e il Signore: vanno ri-sagomati. L’altezzosità dell’orgoglio da una parte, e il burrone della tristezza dall’altra, sono abitudini a cui disobbedire.
E arriverà il più forte. Ossia? Il Battista viene per metterci davanti alle vie di Dio senza tortuosità, il suo compito è rimetterci nella verità. Chi è più “forte” di questo? Colui che, una volta riconosciute le vie di Dio, ci dia la capacità di praticarle; chi non solo dica la verità, ma dia all’uomo di poterla vivere. Il mondo è stato torturato dalle ideologie, teorie che hanno crocifisso l’umanità con le loro astrazioni. Anche la legge di Dio può diventare un modello sterile. Cristo è il più forte e battezza nello Spirito Santo, donando la vita nuova. Ho bisogno che Giovanni Battista mi rimetta nella verità, ho bisogno di farmi correggere, ma per cambiare veramente ho bisogno del Messia. Non mi basta la mia buona volontà, non basta a nessuno. Per vivere secondo il Regno dei Cieli, ci vuole lo Spirito Santo. Bisogna ricevere la vita dei figli di Dio, che solo Cristo può dare. È lo Spirito che esalerà morendo e darà da risorto. Il più forte della legge, Colui che muore e risorge per me e mi fa rinascere dalla Sua misericordia» (FABIO ROSINI, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico B, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp. 21-23).
Ritengo preziosa la precisazione sul fatto che Gesù è più forte del Battista in quanto non solo ci dice la verità (che è già un dono immenso, soprattutto in tempi come i nostri, afflitti da relativismo, soggettivismo, scetticismo e scientismo), ma ci dà la forza per viverla. Io paragono questo alla critica verso l’intellettualismo socratico. Socrate affermava che l’uomo è talmente fatto per il bene che, se non l’attua, è perché non lo conosce. È falso. Spesso sappiamo qual è il bene, ma non riusciamo ad attuarlo. L’errore di Socrate lo chiamiamo “intellettualismo”, perché accentua il ruolo della conoscenza a scapito della volontà. La dimensione conoscitiva è certamente importante, ma a causa del peccato originale (verità su cui abbiamo certamente riflettuto venerdì scorso), possiamo avere anche le idee abbastanza chiare, ma non riusciamo a metterle in pratica. È ciò che afferma san Paolo in quello che ritengo il brano più drammatico di tutto il suo epistolario.
«Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7,15-24).
Inoltre, mi sembrano quanto mai opportuni i riferimenti al vuoto (saper ripartire da zero). Insomma non dobbiamo mai abbatterci per qualsiasi sconfitta e fallimento. Infine, è preziosa la sottolineatura sul fatto che siamo chiamati a raddrizzare non le nostre vie e i nostri sentieri, ma la sua via e i suoi sentieri. In altre parole, siamo chiamati a fare la sua volontà, non la nostra. C’è sempre il rischio di usare il Signore perché ci aiuti a realizzare i nostri progetti! Da “mio Signore” lo farei diventare il “mio servo”!