Stasera avrei voluto continuare a meditare l’omelia di papa Wojtyla iniziata nei giorni scorsi. Invece, preferisco spedirvi il commento di don Fabio Rosini al Vangelo della solennità che celebriamo oggi. Quella di oggi è una festa così bella, la pagina del Vangelo è così alta che è quasi impossibile commentarle. Don Fabio, in un certo senso, fa una scelta ben precisa. Dedica pochissimo spazio alle singole beatitudini, ma preferisce soffermarsi su un unico tema: la gioia.
Avrei mille cose da aggiungere per delineare il cammino verso la santità e anche per dire la mia opinione sui pensieri di don Fabio, ma mi limito a dire che queste riflessioni vanno lette ripetutamente per tanto tempo. Egli esalta il piacere a scapito del dovere (occorre capire bene e non fraintendere!). Infine, mi colpisce molto quando critica duramente (e fa bene) sia la “falsa allegria” sia la “mediocrità dal profilo basso”.
«Solennità di tutti i santi
Mt 5,1-12
La Chiesa celebra la santità proclamando le beatitudini e questa appare impastata di povertà, di lacrime, di fame, di sete e persino di persecuzione
Non sembra ci sia molto di desiderabile…
Questa reazione corrisponde all’idea comune di santità che un po’ di cartapesta, fatta di cose che sanno di acqua santa, di abnegazione stucchevole, di atteggiamenti fuori dal reale, belli quanto ti pare, ma chi ce la fa?
Bisogna ricordare che prima delle vagonate di santi canonizzati dagli ultimi Papi, che hanno reso la santità più vicina e meno astratta, venivamo da secoli in cui la normale maniera di intendere i santi portava a identificarli in quanto portatori di qualità umane straordinarie: dovevano essere tipi eccezionali nei quali si vedeva fin da piccoli che sarebbero finiti al di qua di un porta-moccoli a fare le statue nelle nicchie delle chiese. La santità, sicuramente ammirabile, era comunque roba poco praticabile a meno di non essere dotati per nascita di fegato impavido e bile sotto controllo.
Eppure il testo che la Chiesa proclama è un martello che ripete sempre la stessa parola, ossessivamente, parola che in genere diventa un rumore di fondo e resta sotto alle altre cose che vengono dette. La parola è: “Beati”. Nove volte, a inizio di ogni frase. Le regole della comunicazione dicono che la cosa più ripetuta, in genere, se non è la più importante, comunque è centrale.
La parola “beato”, al di là delle interessanti etimologie che porta in sé, è patentemente collegata alla felicità, al godimento.
Gesù inizia il più magniloquente dei suoi discorsi, che si dipanerà per ben tre capitoli del Vangelo secondo Matteo, ripetendo nove volte l’argomento: la felicità. Non è venuto a portare robe da sacrestia ma la gioia, l’allegria, l’esultanza.
Un santo è uno che ha fatto goal. È uno che ha trovato la strada dell’allegria. Infatti, la Chiesa, prima di proclamare un santo, lo deve riconoscere beato, persona arrivata all’esultanza.
La santità non è una questione di dovere, ma di piacere. Quello vero, quello che non passa, che vale la pena di andarsi a prendere.
Oggi c’è tanta gente in giro che scimmiotta la felicità, che finge la gioia. Un mare di falsa allegria, fatta di sballi, di esagerazioni, di auto-affermazioni, di sconfitte altrui, di trasgressioni. E di vuoto. Perché queste cose bruciano tutto e lasciano nel nulla e costringono a ripetere, ancor di più, aumentando il rischio, la dose, la spinta. Per arrivare allo svuotamento totale.
A questa falsa gioia si oppone la mediocrità del profilo basso, della vita fatta di sicurezze e comodità, e tanto grigiore.
La santità è colore, è passione, è grandezza, è bellezza. È quello che desiderano un ragazzo e una ragazza quando si sposano; è quello che desidera un bambino quando respira a pieni polmoni le sue aspirazioni sognanti, e speriamo che non le perda mai… È andare diritti al bersaglio e arrivare alla meta della vita: aver imparato ad amare e farlo, tanto.
Felicita vera, quella che ha una sola sorgente: l’amore vero» (FABIO ROSINI, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico A, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, pp. 212-214).
Marcello De Maio