Forse qualcuno avrà notato che io – in questi pensieri serali – alterno preghiere a riflessioni più o meno impegnative. In realtà, io sono certo che la vera e seria vita cristiana ha bisogno di nutrirsi certamente di spiritualità (preghiera, silenzio, ascolto dello Spirito), ma anche di teologia, cioè di una fede unita alla ragione, allo studio e alla riflessione. In tal modo, la nostra è una fede convinta e solo così sarà convincente e capace di resistere a dubbi, oscurità e contestazioni.
Io sono sempre più certo che al centro della teologia devono esserci due cardini: il legame tra teologia e antropologia e, subito dopo, il rapporto tra teologia dogmatica e teologia morale. Di tutto questo parlo continuamente nel Manuale. In particolare, il testo di stasera richiede tanta attenzione e delinea in modo molto bello il legame tra cristologia e antropologia. In parole semplici, la mia esperienza è la seguente. Sono contento di essere cristiano, cioè di seguire Gesù, perché ho creduto e sperimentato che solo così mi realizzo pienamente anche come uomo (spero che teniate presente il testo di “Gaudium et spes”, n. 41: “Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo”). In altri termini, chi non crede in Gesù, chi non aderisce a Lui, non rinuncia semplicemente alla vita cristiana, ma impedisce a se stesso di essere e realizzarsi come uomo.
Ecco ora il testo di un uomo straordinario, nato in Italia, ma vissuto sempre in Germania nel secolo scorso, molto stimato da papa Benedetto (se sono ben informato, Paolo VI gli propose la nomina a cardinale ed egli rifiutò).
«Esistenza significa che io soltanto sono io e non un altro. Abito in me, e in questa abitazione sono io solo, e se mai uno deve entrarvi è necessario che gli apra io. In ore di intensa vita spirituale sento come io sono signore di me. In questo vi è qualche cosa di grande: la mia dignità e la mia libertà; nel contempo però peso e solitudine […]. Anche nel cristiano c’è tutto questo, ma si è trasformato; nella sua dignità e responsabilità c’è ancora qualche cosa d’altro, un Altro: Cristo. Quando chiedesti la fede ricevendo il battesimo, qualche cosa di fondamentale si è compiuto in te. Nascendo, ricevesti la tua vita naturale dalla vita della madre. Qui si adombra un nuovo mistero, un prodigio della grazia: fosti generato all’esistenza dei figli di Dio. Con perfetta semplicità e vigore san Paolo dice: “Non sono più che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). La forma che fa cristiano il cristiano, quella che è destinata a penetrare in tutte le sue espressioni, a essere riconosciuta in tutto, è Cristo in lui.
In ogni cristiano Cristo rivive, per così dire, la sua vita; è dapprima bambino, poi giunge gradatamente a maturità, finché ha raggiunto pienamente la maggiore età del cristiano. Cresce in questo senso: che cresce la fede, si irrobustisce la carità, il cristiano si rende sempre più consapevole del suo essere cristiano, e vive la sua vita cristiana con sempre crescente profondità. Il mio io è racchiuso in Cristo, e io devo imparare ad amarlo come colui nel quale ho la mia propria consistenza. In lui bisogna che io cerchi me stesso, se voglio trovare quanto mi è proprio. Se il cristiano rinuncia alle sollecitudini che gli vengono dalla fede, egli si avvilisce. Qui vanno ricercati i compiti più importanti dell’attività spirituale cristiana, quale è, nella coscienza, nel sentimento, nella volontà» (ROMANO GUARDINI, Il Signore, Milano 1981, pp. 559-565, passim).
Vi confido che mi ha consolato moltissimo notare che Romano Guardini, grande teologo, per delineare il rapporto tra cristologia e antropologia, si fonda su Gal 2,20 e qualche tempo fa lo stesso tema l’ho trattato nel Manuale nel cap. II, § 10.3, pp. 138-140, riferendomi proprio a questo passo importantissimo di san Paolo.