Già il 20 febbraio scorso vi avevo segnalato alcuni spunti per riflettere sul “Padre nostro”. Ecco ora un commento. Sul sito della parrocchia ci sono altri commenti e anche un po’ di bibliografia.
«Ci chiediamo cosa significa chiamare Dio col termine di “Padre”. Guarderemo a Gesù e conseguentemente a noi. Col nome di Padre si sottolinea anzitutto l’amore di Dio. L’esperienza di Gesù nei confronti del Padre è stata un’esperienza d’amore. Questo l’ha portato a riconoscere l’origine che l’ha preceduto. All’inizio della nostra vita, quindi, non c’è il caso o un’oscura necessità, ma una Volontà amante che pensa, desidera e, nella sua infinita fantasia, crea. E se è vero che “al principio” c’è questo “Tu”, è altrettanto vero che questo medesimo “Tu” accompagna l’uomo verso la sua pienezza. Padre, dicevano i rabbini, non è solo chi genera, ma chi educa. Dire “Padre” significa anche confessare la sua misericordia e il suo perdono. Sulla gratuità di questo amore smisurato abbiamo delle pagine straordinarie, ad esempio, nel profeta Osea. Dio dichiara di aver amato Israele nel passato, tanto da sollevarlo alla sua guancia con infinita tenerezza come un padre solleva il suo bambino (cf. Os 11,4). Dichiara anche di amarlo nel presente nonostante l’ostinata infedeltà (cf. 3,1). A livello quotidiano, allora, credere che Dio è Padre comporta adottare una certa prassi, ovvero significa fare della paternità un simbolo di amore universale. Amore ricevuto e dato. Al di fuori di questo orizzonte non c’è ragione sufficiente per cui si debba amare gli uomini come fratelli. Dire “Padre”, ancora, è ricorrere a un simbolo di fiducia, di confidenza, come suggerisce spesso Gesù (cf. Mt 6,32, ad esempio). La confidenza ha caratterizzato la vita del Maestro in modo esemplare. Pensiamo solo all’ora della sua passione. Scrive Matteo: “Ha confidato in Dio”, dicono gli avversari mentre è sulla croce: “Lo liberi lui, ora, se gli vuol bene” (27,43) Matteo usa qui il verbo peitho, un verbo che esprime confidenza e obbedienza allo stesso istante Nel testo greco è al perfetto, per evidenziare la continuità: Gesù in tutta la sua vita, e non solo nella passione, ha avuto fiducia nel Padre. Egli muore come è vissuto, ma scaviamo ulteriormente. Confidare significa porsi nelle mani di un altro, è un gesto di dipendenza. Come dire: per la mia vita dipendo da te, mi determino, mi affermo a partire da te. Nell’esistenza di Gesù non c’è mai stato un momento in cui egli abbia ricercato la propria autoaffermazione. Il Padre era il suo Oriente, il riferimento primario. In questo ha espresso tutta la sua dimensione filiale. Un’ultima cosa: dire Padre è ricorrere anche a un simbolo di gratuità e uguaglianza. È quanto troviamo in Mt 23,1-12 Questo testo, che ben completa il brano proposto dalla liturgia odierna, risponde a una domanda fondamentale: da dove si riconosce un vero discepolo di Cristo? Nei vv. 1-7 abbiamo la caricatura del discepolo nella figura del fariseo, mentre nei vv. 8-12 abbiamo i lineamenti del vero discepolo Se il fariseo è preso da se stesso, dal suo amor proprio, il discepolo di Cristo riconosce un solo Padre (Dio) e un solo maestro (Gesù). Questo duplice riconoscimento crea nuovi rapporti tra i credenti, che a loro volta si riconoscono figli, fratelli e discepoli
Quanto ci ami, Padre, donando a noi continuamente il tuo unico Figlio! Quanto ci ami! Ce lo doni avvolgendolo nelle vesti della nostra miseria per rivestire noi della tua gloria. Insegnaci a chiamarti Padre, e a manifestarti la nostra fiducia riconoscente e filiale!» (SANDRO CAROTTA, Messa e preghiera quotidiana, febbraio 2016, pp. 169-171).
So bene le obiezioni contro la preghiera. Eccone alcune.
“È difficile pregare”.
“Non ho tempo per pregare”.
“A che serve dire a Dio di cosa ho bisogno? Tanto Lui già lo sa”.
Ecco l’obiezione più insipiente e pericolosa che ho sentito tante volte: “Io non dedico un tempo specifico alla preghiera, perché tutta la mia giornata è orientata verso Dio, tutta la mia vita è preghiera”.
In realtà, è molto importante il legame tra preghiera e umiltà. Il superbo non può pregare e, se pensa di pregare, cade nell’errore descritto in Lc 18,9-14.
Decisivo è anche il legame tra preghiera e speranza. Il disperato e il presuntuoso non possono pregare.
Nella mia vita sacerdotale ho sperimentato infinite volte anche il legame tra preghiera e sacramento della Penitenza. Chi non si confessa o si confessa male, non può essere un uomo di preghiera.
Se vogliamo capire il livello di una coppia di fidanzati o di sposi, occorre vedere “solo” come e quanto pregano insieme.
Concludo con la frase famosa di un grande santo: “Chi prega si salva. Chi non prega si danna”.