Fra pochi giorni vivremo la solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti.
Può sembrare strano, ma io sento questi giorni quasi come il Triduo Pasquale. Non riesco a pensare al 1° e al 2 novembre se non nell’orizzonte dell’Amore del Signore per noi, in particolare meditando sulla sua morte e risurrezione. Quindi, dinanzi a questo mistero infinito provo grande gratitudine e consolazione, e mi sento spinto ancora una volta alla conversione.
Come ogni settimana, vi spedisco il commento di don Fabio Rosini al Vangelo di questa domenica e tale brano è strettamente collegato proprio con il 1° e il 2 novembre.
Infatti, cos’è la santità se non vivere nell’Amore? A che serve meditare sulla morte e sui cari defunti e anche andare al cimitero, se non riflettiamo sull’unica cosa che vale in vita e in morte, cioè ancora l’Amore?
Il commento, che ora vi spedisco, mi sembra forse ancora più impegnativo e acuto del solito. Mi dà un po’ fastidio un anglicismo, la parola “must”. Spero solo che tutti sappiano il significato di questa parola.
Siamo spinti certamente a un forte esame di coscienza. Dovremmo vedere se abbiamo le idee chiare sulla differenza tra ciò che primario e ciò che è secondario. Io penso che in questo consista la vera sapienza. Specialmente durante il lockdown (anch’io uso un anglicismo!) a me è parso che anzitutto per la Chiesa era diventata primaria l’attenzione alla salute e ai problemi economici. Io sono certo che l’insegnamento di Gesù dice esattamente il contrario, ma forse il Vangelo non l’ho mai capito bene (Cfr. Mt 6,25-34).
Mi ha colpito molto anche il riferimento al rischio di odiarmi, di pensarmi sbagliato. Ho pensato che un genitore incapace potrebbe portare un figlio proprio in questo abisso terribile e buio.
XXX domenica del Tempo Ordinario
Mt 22,34-40
«Qual è il grande comandamento?
Qual è la cosa importante da fare? Qual è la cosa che decide tutto?
Non è difficile rispondere: quando la vita ci impone di tirare una riga e fare la somma – e può capitare per mille motivi – ci si chiede se si è amato qualcuno sul serio, se c’è qualcuno che è felice a causa nostra.
Tante volte al capezzale di un morente – raccogliendo l’ultima confessione, l’ultimo sfogo, l’ultima consapevolezza – questo è l’unico vero problema, l’unica domanda: ho amato? Sono stato un buon padre, una buona madre, lascio qualcosa di buono a chi ho intorno?
Ha ragione Gesù: amare Dio e amare il prossimo è quel che conta. Da questo dipende tutto. Questa luce può illuminare la futilità di mille cose secondarie. La distrazione su questa priorità è un’opera del maligno, che non ha bisogno di farci fare il male, perché a lui basta distoglierci dal bene, tenerci impegnati nel secondario, incastrarci nell’ingorgo delle cose che non sono cattive, ma semplicemente non sono amore.
Fuori dall’amore non esiste felicità, ma solo dei surrogati di questa.
Eppure c’è un secondo livello.
Di amore in realtà parlano tutti, cantano tutti, scrivono tutti, ma c’è da vedere di cosa stiano parlando, perché di amore falso, evanescente e ambiguo è pieno il mondo. Non è esatto, infatti, che l’amore dia la felicità, ma che solo l’amore vero dia la felicità vera.
Un “must” della predicazione degli ultimi decenni – non del tutto sbagliato, anzi talvolta opportuno – verte proprio sulla frase di Gesù, presa a sua volta dal libro del Levitico:
“Amerai il tuo prossimo come te stesso”; e vien fatta un’equazione: il Signore ci dice di amare il prossimo come amiamo noi stessi, e quindi se uno non ama sé stesso finisce che non ama neanche gli altri; ergo: bisogna prima imparare ad amare se stessi!
Cinquant’anni fa era urgente sottolineare questo aspetto, perché ci dovevamo liberare da un amore che sapeva solo di obbligo impersonale, ma era l’inizio di un’ulteriore mistificazione: amare sé stessi, accettare sé stessi, non è difficile: è impossibile! Io ho bisogno di essere amato per non odiarmi, per non pensarmi sbagliato. Solo Cristo mi sa condurre a me stesso senza orrore, senza quel senso di insufficienza che mi porto dentro.
E se il compito diventa amare sé stessi ecco che proprio in nome delle parole del Levitico sparisce il loro scopo palese: l’amore per il prossimo.
Il compito di quella frase è tirarci fuori dal vortice del narcisismo autodistruttivo. Narciso, nella mitologia greca, era colui che muore nel pozzo della sua immagine perché non ascolta la ninfa Eco che lo chiama a guardarla e ad amarla, ed è questo il problema odierno: l’ossessione su noi stessi.
Cristo ci porta al nostro vero centro, che è l’amore, ma questo centro è fuori di noi, è nella relazione, nella comunione, nell’unità. Perché è proprio quando sto con Dio e con gli altri che trovo me stesso.
Forse abbiamo insegnato ai nostri figli a cercare di realizzarsi.
Dovevamo invece insegnar loro a stare gli altri (ROSINI FABIO, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico A, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, pp. 209-211).
Marcello De Maio