Stasera vi propongo un lavoro forse più impegnativo del solito. Voglio porgervi una riflessione molto importante sulle letture della s. Messa di ieri (Eb 12,4-7.11-15; Mc 6,1-6). Per “molto importante” intendo che questo commento ci può aiutare nella nostra vita concreta: sia nei rapporti col Signore sia nelle nostre relazioni “orizzontali”.
«La fede è necessaria perché il Signore possa agire liberamente e donare abbondantemente le sue grazie. Il Vangelo ci dice che, per la mancanza di fede dei suoi compatrioti, Gesù non ha potuto operare fra loro alcun miracolo. I suoi concittadini non vogliono credere in lui, perché è uno di loro, non ha niente di straordinario; pensano di averlo già conosciuto e non capiscono come egli possa essere diverso da come essi l’hanno conosciuto.
La prima lettura ci ricorda che anche noi molto facilmente possiamo fermarci alle apparenze e non riconoscere l’intervento di Dio, che avviene soprattutto nei momenti di difficoltà e di prove. Queste raggiungono tutti, credenti e non credenti, ma noi pensiamo che per i credenti non ci dovrebbero essere, o almeno che dovrebbero essere di un altro tipo. Esse ci sconcertano, e noi allora facciamo molta fatica a riconoscervi la mano di Dio.
La Scrittura ci insegna ad andare al di là delle circostanze che ci sembrano ingiuste, dolorose, per vedere in esse la presenza di Dio che opera, e che vuole che noi ci apriamo alla sua azione. Dice il libro dei Proverbi: “Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio” (cf. Pr 3,11-12). E l’autore della Lettera agli Ebrei lo ricorda ai cristiani per ammonirli: “Tutto ciò che state soffrendo è una correzione; non prendetelo semplicemente come una difficoltà!”. Sia che si tratti di malattie, sia di difficoltà nei rapporti interpersonali, sia di fallimenti in ciò che facciamo per il Signore, il considerare le cose semplicemente nel loro aspetto esteriore è una mancanza di fede. Afferma ancora la Lettera agli Ebrei: “È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre?”. C’è un rapporto con Dio che dobbiamo rispettare, una sua intenzione a cui dobbiamo corrispondere nella fede. Allora per noi tutto cambia: la prova è illuminata dall’interno e, invece di essere semplicemente un motivo di sofferenza, diventa un’occasione per sentirci in una relazione più stretta con Dio. Quando siamo provati, abbiamo l’impressione che Dio ci abbandoni; che non pensi più a noi; che ci lasci in una situazione che non corrisponde al nostro essere suoi figli. Ma è vero proprio il contrario: Dio non ci abbandona, ma s’interessa di noi. Non ci è sempre facile riconoscere in ogni prova l’intervento positivo di Dio nei nostri confronti: c’è bisogno di un atto di fede, perché questo intervento divino non ce lo rivelano le apparenze, ma la parola di Dio. Lo Spirito Santo, che è in noi, ci apre gli occhi e ci fa capire che Dio sta intervenendo nella nostra vita, e che lo fa in modo più attivo e affettuoso quando ci mette alla prova con qualche difficoltà.
La Lettera agli Ebrei è molto realista, e constata: “Certo, sul momento ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza”. Questa è un’esperienza che facciamo tutti noi, e che è dovuta all’amor proprio. Ma in questo passo l’autore vuole mettere in risalto non la sofferenza, bensì l’umiliazione. Se qualcuno ci fa notare un nostro difetto o una nostra mancanza, ne rimaniamo così rattristati che pensiamo più all’osservazione che ci è stata fatta che al nostro difetto o alla nostra mancanza da correggere.
Dovremmo invece superare questa prima reazione istintiva dell’amor proprio e riconoscere che ci è stato offerto un aiuto di cui dovremmo essere contenti.
Questa osservazione era stata già fatta dai filosofi antichi. Per esempio, Socrate diceva che la felicità più grande consiste nel non avere difetti e nel non fare nulla di male, e aggiungeva che subito dopo viene la felicità di essere ripresi quando si sbaglia, perché allora ci si può correggere.
La Scrittura va molto più in profondità: ci dice che dobbiamo essere felici quando il Signore ci corregge, non soltanto perché questa è un’occasione per progredire, ma anche perché così la nostra relazione con Dio diventa più profonda.
Abbiamo poi un motivo di fiducia ancora più grande, se pensiamo che la nostra sorte è legata a quella di Gesù. La Lettera agli Ebrei ci ha già detto che Gesù, pur essendo il Figlio perfetto, ha voluto imparare l’obbedienza dalle cose che ha patito (cf. Eb 5,8), ha voluto conoscere quella educazione dolorosa che ci è necessaria. Ora, quando noi viviamo a nostra volta questi momenti di educazione dolorosa, siamo uniti a Gesù in modo particolare e possiamo crescere nel suo amore.
La prova come motivo di speranza e come mezzo per amare è la prospettiva che dovremmo avere sempre presente nei momenti di difficoltà e di disagio, e che dovrebbe ravvivare il nostro coraggio e la nostra fede.
Chiediamo al Signore che apra i nostri occhi, perché sappiamo vedere in tutto la sua sollecitudine paterna verso di noi» (ALBERT VANHOYE, Il pane quotidiano della Parola. Volume secondo – Tempo ordinario/1. Edizioni AdP, Roma 2015, pp. 77-79).
In estrema sintesi, ho capito che il cardinale Vanhoye ci aiuta ad andare oltre le apparenze per riuscire a percepire come Dio è presente e agisce nella nostra vita. Dobbiamo saper vivere il grande e difficile valore della correzione fraterna (sia nel correggere gli altri, sia – cosa ancora più difficile, forse – quando a essere corretti siamo noi). Credo che sia molto utile riflettere su alcuni passi biblici: Gv 15, 2 (essere corretti da Dio significa che Lui ci pota) e Rm 8,28 (anche ciò che ci sembra amaro, può risultare prezioso, a patto che restiamo nell’Amore, cioè in Lui). Soprattutto mi sembra stupendo il riferimento a Eb 5,8: il punto più importante in assoluto è progredire nella conformazione a Gesù (anche attraverso le difficoltà, la sofferenza e la croce; ma tutto ciò non avviene automaticamente, in quanto occorre sempre la nostra adesione, tanto libera, quanto docile e obbediente).